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LA TURCHIA: UNA TRAPPOLA O UNA GRANDE RISORSA?

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Luca Baldelli

 

Senza ombra di dubbio, la regione anatolica, con la sua centralità geografica e geopolitica, è stata sempre e sempre sarà di primaria importanza strategica per la Russia. La compagine che dal Vicino Oriente e dall’Armenia si estende fino al Bosforo e allo Stretto dei Dardanelli, prolungandosi verso i Balcani, è la cerniera tra Europa ed Asia. La talassocrazia britannica, sempre impegnata a trovare “spade continentali” in grado di impedire il sorgere di un’Eurasia forte ed unita, l’imperialismo statunitense, il mundialismo e lo pseudoeuropeismo della Troika sono accomunati da un disegno: spingere la Turchia contro la Russia. L’un contro l’altro armate ed aizzate, le due colonne portanti di un possibile nuovo ordine eurasiatico si dilanieranno a tutto profitto dei circoli imperialisti. Tale scenario lo vediamo tragicamente sotto ai nostri occhi in questi ultimi mesi, con il confronto tra Erdogan e Putin nato proprio dai maneggi degli Usa e della Nato in Siria, avamposto della lotta all’imperialismo e al sionismo nel Vicino Oriente.

Questa storia di confronti tra Russia e Turchia affonda le sue radici lontano nel tempo, almeno nel secolo XVII, quando i Cosacchi ucraini di Zaporozhe, avanguardia fiera e combattiva che da sempre guardava a Mosca, più di una volta inviarono i loro reparti in Moldavia per dar man forte alle popolazioni locali contro le incursioni tatare e turche, che minacciavano tanto l’Ucraina quanto la Russia. L’epopea dei Cosacchi è un emblema imperituro della lotta delle popolazioni slave contro l’espansionismo turco e il nazionalismo polacco, sempre complementari, assieme al separatismo ucraino, quando si tratta di attentare alla stabilità e alla sovranità della Russia, ai suoi legittimi interessi geopolitici e geoeconomici, in un fil rouge che attraversa i secoli e i sistemi socioeconomici. Vicende e rivolgimenti come quelli provocati dal tradimento di alcune figure, vedi Petro Doroshenko, atamano cosacco che si fece vassallo della Sublime Porta, nel tentativo velleitario di costituire una compagine indipendente opposta tanto ai pan polacchi quanto ai Russi, sono eccezioni che confermano la regola.

Passando al Novecento ed alle vicende che riguardarono direttamente l’Urss, è bene non dimenticare che negli anni ’70 e ’80 la Turchia fu la pedina principale dell’antisovietismo nell’area, dietro l’usbergo della NATO; ad Ankara e Istanbul si tramavano complotti, atti terroristici, destabilizzazioni e aggressioni contro il campo socialista, contro le postazioni progressiste e antimperialiste nel Vicino Oriente, contro l’Iran khomeinista. Erdogan, pedina dei circoli più aggressivi della NATO, si pone in perfetta continuità con i piani e le azioni dei circoli che mirano allo scontro fra Russia e Turchia: finanziatore e mentore dell’islamismo radicale nell’area, egli sta attuando una strategia sempre meno sottile e sempre più manifesta di provocazione nei riguardi della Russia, rinata ad un nuovo protagonismo geopolitico e geoeconomico. L’abbattimento dell’aereo militare russo nei mesi scorsi ha segnato l’inasprirsi di questa tensione, pericolosamente tesa a minacciare la pace nell’area geografica direttamente interessata e nel mondo. Attraverso Erdogan, l’Occidente e il mondialismo attuano i loro giochi e le loro manovre, contando su un Paese geograficamente centrale e per nulla trascurabile dal punto di vista della potenza economica e con un bacino demografico di tutto rispetto (più di 80.000.000 sono gli abitanti della Turchia). Nel fare questo, gli strateghi dello scontro di civiltà si sono preoccupati anche di scegliere un cavallo utile allo scopo: Erdogan non è certamente l’epigono della tradizione kemalista, laica e modernizzatrice. Il suo islamismo, ben dosato e calibrato in patria, quanto sparso a piene mani all’estero, nell’appoggio convinto e smaccato alla sovversione armata siriana, irakena, libica, egiziana, rappresenta un’arma che a lui garantisce la stabilità del potere, in un contesto segnato da una forte reviviscenza religiosa e confessionale. Ai suoi protettori (statunitensi e occidentali) egli assicura una sorta di contraltare sunnita all’Iran sciita, sempre più presente sulla scena internazionale e sempre più in buoni rapporti con la Russia (Teheran e Mosca sostengono, da sole, la totalità dello sforzo bellico diretto contro l’ISIS). Erdogan rappresenta inoltre un’“assicurazione sulla vita“ in caso di rivolgimenti nella non più affidabilissima e stabile Arabia Saudita a guida wahhabita. In tal senso, le spinte neoottomane, panturche o panturaniche provenienti dai circoli governativi turchi sono contenute, strumentalizzate e indirizzate alla destabilizzazione dei contesti invisi all’imperialismo e al mondialismo, in primis la Siria baathista di Assad.

Questi orientamenti, sempre più marcati, sono emersi chiaramente negli ultimi anni ai più alti livelli: il Ministro degli Esteri e poi Primo Ministro Ahmed Davutoglu, ferreo seguace di Erdogan, ha scritto nel 2001 un saggio dal titolo Profondità strategica. La posizione internazionale della Turchia. In un passaggio emerge con forza tutta l’ambizione dei governanti attuali in rapporto alla gestione della politica estera e alla collocazione del Paese sul quadrante mondiale: “Il ruolo periferico assegnato alla Turchia dalla classe politica dominante non corrisponde in verità né alla realtà né alle tradizioni del popolo turco, né tantomeno alle sue aspettative per il futuro“. Con queste premesse, la riflessione sull’area ex sovietica, e non solo, è inevitabilmente connotata da aspirazioni espansioniste nemmeno troppo malcelate: “Tali aree sono state inevitabilmente agitate da fenomeni quali la richiesta di protezione avanzata alla madrepatria dai turchi ciprioti, le ondate migratorie dai Balcani, l’immigrazione attraverso i confini sudorientali di profughi della guerra Iran-Iraq (1980-‘88) e del regime di Saddam negli anni Novanta, la richiesta di protezione avanzata dalla città di Nakhchivan in occasione del conflitto tra Armeni e Azeri, e financo, ben al di là dei confini diretti, dalla richiesta di asilo da parte dei turchi mesceri cacciati dall’Uzbekistan. (…) Il lascito ottomano nel bacino continentale circostante fa sì che quelle popolazioni individuino ancora oggi nella Turchia la potenza capace di proteggerli nelle loro aree di stanziamento o l’estremo rifugio in caso di pulizia etnica. Ciò impone alla Turchia nuove missioni orientate secondo il parametro della storia. ( … )“. Più avanti, si scende nei dettagli e si concentra l’attenzione sulla Russia: “L’alleanza stabilita con l’Azerbaigian può gettare le basi per un’ampia politica petrolifera nella misura in cui riuscirà a produrre un contrappeso all’alleanza tra Russia, Iran e Armenia. È proprio per non essere riusciti a creare questo contrappeso che, a dispetto di tutte le dichiarazioni di buone intenzioni, non si è riusciti a influire sull’approccio dell’Azerbaigian, attento a mantenersi in costante equilibrio tra Turchia e Russia”. Il non aver promosso, per tanto tempo, una linea espansionista verso l’area ex sovietica, sostiene Davutoglu, è alla base di una linea “meramente reattiva, ristretta, limitata”, confinata all’asse Egeo-Cipro.

La geoeconomia va a braccetto, ça va sans dire, con la geopolitica, visto che Davutoglu insiste molto sul legame tra la scomposizione dello spazio geopolitico ex sovietico dopo il 1989-‘91 e le opportunità di espansione economica della Nazione turca, la quale non può che vedere un pericolo nel nuovo protagonismo politico e strategico russo e nella cooperazione tedesca con la Russia. “Con la disgregazione dell’Unione Sovietica il Mediterraneo orientale e l’Asia occidentale e meridionale sono emerse quali vie alternative per i traffici energetici e commerciali dall’Asia centrale verso l’Europa (…) La Germania condivide con la Russia l’interesse a far passare le connessioni tra Asia centrale ed Europa a nord del Mar Nero invece che a sud”.

Queste ultime riflessioni, solo temporaneamente superate dall’accordo sul gas tra Russia e Turchia dell’inverno 2014, sono ritornate d’attualità col conflitto tra le due nazioni, sapientemente alimentato dagli interessi atlantici e sionisti. Quell’intesa, che pareva essere propedeutica ad un accordo più completo, globale, su tutto il quadrante dei reciproci interessi, è minata ora alle fondamenta, nonostante la volontà di pace di Mosca, che ragiona in grande e progetta sul lungo periodo l’alternativa all’unipolarismo americano. Saltata l’intesa, ecco rinfocolarsi, assieme al mai sopito appoggio turco al terrorismo siriano anti-Assad, anche un altro ruolo destabilizzante di Ankara, meno noto ma non meno pesante, proprio in un teatro alle porte della Russia: l’Ucraina. È infatti qui che i servizi segreti turchi giocano una partita delicata e certamente rischiosa, appoggiando il governo golpista di estrema destra e offrendo protezione ai membri dell’ISIS, per i quali l’Ucraina è sempre più una retrovia agevole e comoda. Ciò dovrebbe turbare non poco gli Europei e gli Occidentali, così zelanti nello spingere Kiev contro Mosca e contro la gente del Donbass, ribelle alle angherie e alle illegalità della giunta kieviana.

In questa fase la Turchia è sempre più riconosciuta, accanto all’Arabia Saudita, come l’attore principale della destabilizzazione della Siria, nei confronti della quale nutre progetti di smembramento e spartizione perfettamente complementari a quelli israeliani del Piano Kivunim: frammentazione e disgregazione dell’unità nazionale, seguite dalla formazione di staterelli sunniti, sciiti, curdi, alauiti. Ankara costruirebbe, su queste rovine, un condominio con Tel Aviv, pronta, con un balzo, a prendersi fette importanti di territorio, in vista della sempre auspicata (ed ipocritamente taciuta) fondazione del “Grande Israele“, esteso dal Nilo all’Eufrate.

La posta in gioco, in Siria, è questa, e riguarda da vicino la Russia, che sarebbe estromessa da ogni influenza nell’area e minacciata nelle sue stesse retrovie. La Turchia, poi, nel suo ruolo di spada puntata contro la Russia è sempre attiva in appoggio ai movimenti antirussi in Asia Centrale. Qui vivono popolazioni turcofone che, nei progetti panturanici dei circoli diplomatici e strategici di Ankara, hanno avuto a lungo un peso rilevante. Oggi, dal Kazakhstan all’Uzbekistan, la tendenza prevalente (specie nel primo di questi due Paesi, grazie all’operato saggio, equilibrato e costellato di successi del Presidente Nazarbayev) è quella della collaborazione con Mosca, all’insegna del più costruttivo e concreto spirito eurasiatico. Gli artigli di Ankara, quindi, in quest’area paiono alquanto spuntati.

Se questo è il quadro attuale e, in larga misura, passato, sono possibili tuttavia anche rivolgimenti in positivo, sulla scia di una consapevolezza eurasiatica che ponga in rilevo storia, cultura, identità, interessi comuni. La Turchia è e potrebbe essere, insomma, anche qualcosa di diverso, una volta mutata di trecentosessanta gradi la sua politica estera ed interna. La citata intesa per il gas del 2014, lungi dall’essere il parto di un’estemporanea volontà “trattativista”, è stata il frutto di una sensibilità e di una visione presenti in una parte non trascurabile, quantunque attualmente non egemone, dei circoli diplomatici, economici, geostrategici di Ankara.

Tutto ciò ha dei precedenti storici: all’inizio degli anni ’30 l’Urss concesse generosi prestiti alla Turchia e quest’ultima modellò il suo sviluppo industriale e agricolo sull’esempio dei Piani quinquennali sovietici, il cui prestigio si era tanto più accresciuto dopo la crisi del ’29 di tutto il mondo capitalista. Mosca, con Putin in testa, è fortemente consapevole del fatto che, da un pacato e concreto ragionamento sugli scambi economici, specie quelli nel settore energetico, dipendono non solo il futuro delle economie russa e turca e l’avvenire delle relazioni tra i due Paesi, ma anche, in particolare, la pace nell’area eurasiatica e nel mondo, con la fine dell’unipolarismo americano e del dominio economico degli Usa nel Pianeta.

Ecco perché l’intesa fra Russia e Turchia rappresenta, per l’imperialismo e per il mondialismo, un rischio da scoraggiare ad ogni costo: con una Turchia inserita nella compagine eurasiatica, per Britannici, Americani e oligarchi mondialisti non vi sarebbe più partita, né politica, né geopolitica, né economica. Pensiamo solo alla forza contrattuale data dalla possibilità di rivedere la Convenzione di Montreaux del 1936 sulle condizioni di chiusura dello Stretto dei Dardanelli. Dato questo retroterra, risulta più facile capire la situazione attuale. Russia versus Turchia, certo, ma anche lucida consapevolezza, da parte di Putin e del governo russo, della necessità di difendere, assieme alla dignità nazionale ferita ed ignobilmente calpestata con un vero e proprio atto di guerra (l’abbattimento del SU-24), anche la pace nell’area, da colpi di testa che gioverebbero solo ai nemici. Analizzando con attenzione le mosse russe di questi mesi sullo scacchiere turco, notiamo tutta la forza e l’eccellenza di una diplomazia che ha fatto e fa scuola. Se è vero che il governo russo, per bocca del Ministro degli Esteri Lavrov, ha chiesto ad Ankara scuse ufficiali, solenni e incondizionate per quanto è avvenuto; se è parimenti vero che Mosca ha comunicato la revisione e il momentaneo alt ai progetti inerenti la costruzione di gasdotti, centrali nucleari e via elencando; se è vero che si è raccomandato ai cittadini russi, per comprensibilissime ragioni di sicurezza, di non recarsi in Turchia… Se tutto ciò è vero, è anche vero che Putin e il governo russo, in armonia, come sempre, con la missione storica della Nazione, hanno anche affermato risolutamente di non volere nessuna intensificazione dello sforzo militare nell’area, nessuna guerra che conduca a rovinosi risultati. Se da una parte si esigono giustizia e riparazione, dall’altra si lascia una porta aperta alla Turchia, non certo per un cedimento, ma per spronarla a prendere atto della necessità di scuotersi di dosso le redini dell’imperialismo e di inaugurare una nuova stagione di rapporti con Mosca, come hanno fatto quasi tutti gli Stati centroasiatici, che, a partire dal Kazakhstan, hanno ignorato da tempo le sirene panturaniche per volgersi verso la Russia.

Nel momento in cui si mostra la “faccia feroce”, si lavora anche perché in un’area di comune prosperità le asce di guerra vengano deposte e si costruisca un diverso assetto futuro, fondato sul recupero delle ragioni della cooperazione e della crescita. Toccherà ad Ankara non lasciar cadere dalle mani dei Russi il ramoscello d’ulivo proteso verso il Bosforo e comprendere appieno i vantaggi di questo nuovo ordine economico e politico. Le incursioni russe in Siria, d’altro canto, rappresentano non una volontà di intensificazione dell’impegno bellico, ma un segnale chiaro lanciato ad Ankara ed un’azione di bonifica da quella peste terroristica che minaccia la sovranità e la stabilità di interi Paesi, impedendo l’avvio di progetti alternativi all’egemonia americana e vantaggiosi per tutti. Anche in questo caso, Ankara dovrà scegliere se continuare a destabilizzare il quadrante del Vicino Oriente, o se inaugurare una nuova stagione, recidendo ogni legame col fanatismo settario salafita e wahhabita e portando in dote alla futura Eurasia unita il contributo positivo della storia, della cultura e della tradizione turca, tanto ottomana quanto kemalista.

L’Orso russo, se esige rispetto ed è pronto a farselo riconoscere con ogni arma economica e diplomatica disponibile, non per questo cade nella trappola americana e sionista di una guerra generalizzata (e dagli esiti imprevedibili) che lo trascinerebbe nel pantano di una situazione catastrofica, la quale significherebbe soltanto logorio e destabilizzazione per l’“heartland“ di mackinderiana memoria. L’Orso russo, insomma, non è l’elefante nel negozio di porcellane, ma un animale in grado di distinguere perfettamente quand’è il momento di spingere l’acceleratore e quando invece è il caso di adoperare il freno, ferma restando la non negoziabile volontà di spegnere l’incendio siriano e di espellere dall’area i giochi pericolosi di Washington, dell’espansionismo sionista e della talassocrazia britannica, disegni che, ad oggi, trovano nell’operato di Erdogan il culmine politico e militare.

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