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GLI ACCORDI ECONOMICI FRA LA RUSSIA E LA CINA

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Intervista di Giovanni Caprara al Professor Arduino Paniccia, Direttore della Scuola di Competizione Economica Internazionale di Venezia e Professore di Studi Strategici.

Professor Paniccia, la Russia ha accettato lo yuan come valuta per la fornitura di petrolio alla Cina e la Banca Centrale russa e quella Popolare cinese hanno convenuto sulla realizzazione di swap delle rispettive valute nazionali. Quali saranno, a medio e lungo termine, le incidenze sul mercato globale, sull’Euro e soprattutto sull’economia italiana?

Cina e Russia sono da tempo incamminate verso un’alleanza economica e politica che, nonostante molti commentatori occidentali definiscano “tattica”, è in realtà un progetto a lungo termine che potrebbe avere conseguenze incognite nell’assetto mondiale negli anni a venire. Mackinder, uno dei padri della geopolitica, parlerebbe subito di una nuova reincarnazione dello “heartland” da lui teorizzato, contrapposto alle potenze marittime. D’altra parte, è molto improbabile che la Russia nell’Est Europa e nel Caucaso e la Cina nel Pacifico possano permettersi una politica estera (e militare) così attiva senza essere sicuri di avere le spalle coperte, cioè senza avere la certezza della totale improbabilità di situazioni conflittuali.
In termini di economia globale, è palese la carica destabilizzante del connubio tra due stati dall’estensione territoriale enorme di cui uno con immense risorse minerarie ed energetiche, e l’altro “la fabbrica del mondo”, ed entrambe potenze militari e nucleari. Senza contare, cosa tutt’altro che secondaria, che la Cina detiene attualmente il 95% della produzione mondiale di terre rare, essenziali nella produzione della componentistica elettronica, cioè dell’industria più “strategica”.
L’euro è minato soprattutto dalle proprie contraddizioni interne – che riflettono quelle altrettanto gravi dell’Unione Europea – più che dall’alleanza economica e finanziaria tra Russia e Cina. Esiste da parte di questi due paesi un’evidente convergenza nel coordinamento delle rispettive valute, ma la mia opinione è che, al di fuori dell’Europa, l’euro sia visto ormai soprattutto come un esempio da non seguire. Diverso il discorso per gli Stati Uniti, che si troverebbero decisamente spiazzati da un simile colosso del tutto autonomo dalla politica monetaria americana. Una forte alleanza strategica tra i paesi occidentali sarebbe a questo punto inevitabile. Però per esempio il TTIP si trova adesso a languire a causa di contenziosi legati ad interessi particolaristici nei vari settori economici.
Infine l’economia italiana è attualmente in declino, non solo per l’acritica adesione ad una moneta unica fatta senza affatto preoccuparsi di avere sufficienti garanzie – cedendo l’istituto di emissione e tenendosi il debito – ma anche, se non soprattutto, per la storica mancanza di una strategia economica e geopolitica ad ampio respiro che desse al nostro paese un suo preciso e internazionalmente riconosciuto ruolo nell’economia e nella politica mondiali. Il rischio che si inneschino per il nostro paese dinamiche economiche simili a quelle che portarono all’asfissia il nostro Mezzogiorno nella seconda metà del XIX secolo è reale. Dinamiche che, se non venissero subito vigorosamente corrette, rischierebbero purtroppo di diventare irreversibili.

Un regime valutario meno dollaro-centrico nei mercati energetici internazionali, corrisponderebbe all’assunzione della Cina ad attore principale sullo scenario energetico globale. Il commercio estero cinese è già regolato in renminbi, e l’emissione di strumenti finanziari con questa valuta è già in ascesa con la risultanza di una maggiore flessibilità dei tassi di cambio dello yuan. Questa trasformazione economica, potrebbe circoscrivere il predominio del dollaro, con la risultanza di incidere negativamente sulla posizione strategica degli USA?

Gli Stati Uniti hanno sempre tratto enorme vantaggio dal fatto che quella che sostanzialmente è diventata con Bretton Woods la moneta mondiale, è sempre stata gestita ad esclusiva discrezione della Federal Reserve. La ben nota denuncia unilaterale della convertibilità del dollaro in oro da parte di Nixon nel 1971 lo sta a dimostrare. Da allora la credibilità della moneta di un paese è stata misurata non solo in termini della sua credibilità economica, ma anche della sua credibilità politica e perché no di potenza e militare. Il tentativo di limitare lo strapotere del dollaro nel commercio mondiale grazie all’euro proprio per questo motivo nacque già morto, poiché dietro l’euro non solo non esiste una vera entità politica, ma addirittura nemmeno una vera e propria banca centrale. La moneta cinese ha dietro di sé la prima potenza economica mondiale, con uno stato forte e uno strumento militare possente anche dal punto di vista nucleare. Certamente un blocco valutario sino-sovietico inciderebbe nel medio termine negativamente, e di molto, sulla posizione strategica degli Stati Uniti. I quali peraltro, puntando decisamente sullo shale-oil, hanno se non altro risolto le questioni strategiche legate alla dipendenza energetica e al loro stretto legame con i paesi arabi del Medio Oriente.

La finalità della Cina è quello di ottenere il consenso dei principali produttori di energia nell’accettare il renminbi come valuta transazionale. L’accordo trainante a tale strategia è con la Russia, che vale 400 miliardi di dollari, e questo attesta il renminbi ad un ruolo fondamentalmente apprezzabile, ma sarà sufficiente a convincere gli altri produttori?

Non credo arriverà a convincere tutti gli altri produttori. Molti di questi troveranno conveniente puntare sulla fame di petrolio dei paesi occidentali, non tanto degli Stati Uniti, quanto piuttosto per esempio di Europa e Giappone, e perciò rimanere nell’area del dollaro. Penso all’Arabia Saudita, al Kuwait, alla Nigeria, eccetera. Però per esempio l’Iran è molto probabile che troverà un accordo con il blocco sino-sovietico. Le dinamiche conflittuali del Medio Oriente si ripercuoteranno su questa eventuale scelta di campo.

Eric Delbecque e Christian Harbulot, sottolineano il rischio del patriottismo economico, inteso come una ideologia protezionista ed isolazionista. Due aggettivi che sembrano riassumere le dinamiche economiche e la politica cinese. Se, però, tale condizione dovesse subire un cambiamento, il patriottismo economico potrebbe ingenerare un effetto contrario alle aspettative dei decision makers cinesi?

Una delle contraddizioni storiche della globalizzazione è che, contrariamente al mondo interconnesso dal libero scambio vagheggiato negli anni Novanta del XX secolo, ha portato ad un mercantilismo esasperato, ove il ruolo degli stati nel supportare le rispettive economie nazionali è diventato determinante. La globalizzazione, cioè, si è rivelata un processo storico contraddittorio e sostanzialmente incompiuto. Robert Kagan, nel suo Il ritorno della storia e la fine dei sogni, già sette anni fa aveva predetto che lo stato nazionale era tutt’altro che defunto e che si sarebbe andati verso uno scontro tra un Occidente liberaldemocratico e un Oriente autoritario ed autocratico, lungo delle “linee di faglia” che corrono lungo l’Est Europa, il Caucaso, il Golfo, l’AfPak, i due Mari Cinesi. La crisi dell’Unione Europea non è data solo dalla deriva burocratica, ma soprattutto dal fatto che il progetto europeo si è basato su presupposti, sia di teoria economica che soprattutto di interpretazione dell’evoluzione delle relazioni internazionali, che, come dice giustamente Kagan, si sono alla fine rivelati errati. E che si possono sintetizzare appunto nella convinzione che, in un mondo che sarebbe storicamente andato verso il superamento degli stati nazionali, bastasse creare un soggetto economico forte per avere un soggetto politico forte.
Christian Harbulot è il direttore dell’École de Guerre Économique di Parigi – e sottolineo il termine “Guerre” – che da anni auspica caldamente una decisa azione del governo francese in tema di intelligence economica e protezionismo industriale nei settori “strategici”, per sostenere e favorire l’economia nazionale transalpina, all’interno proprio di una tradizione di “patriottismo economico” che si può far risalire addirittura a Colbert. E notiamo bene: nei lavori della ÉGÉ si parla sempre di Francia, non di Europa.
Un liberoscambismo puro d’altra parte non è mai esistito: in ogni epoca, il forte è tradizionalmente liberoscambista, il debole protezionista. Esiste comunque il pericolo reale che la posizione cinese provochi il coagularsi di due blocchi economici, uno occidentale e uno asiatico, che porterebbe ad una situazione potenzialmente conflittuale: le “sfere di coprosperità” non hanno mai portato bene. Prima o poi la Cina dovrà o aprirsi ai mercati esteri, o puntare sul mercato interno: il sistema economico mondiale è per forza di cose chiuso, per cui dove esiste un esportatore deve esistere anche un importatore. D’altra parte, un mercato interno di più di un miliardo di persone è una garanzia abbastanza sufficiente di sviluppo. Bisogna tener presente tuttavia che la politica economica di Pechino non è dettata solamente da propositi di arricchimento, ma anche di potenza e prestigio nazionali. Incidentalmente, sarà interessante vedere quale posizione prenderà l’India, altro grande colosso che però non ha mai avuto molto amore per le alleanze troppo strette.

In un mondo sempre più complesso, la guerra tradizionale è stata soppiantata dal commercio, dalla infowar e dalla cyberwar. Pertanto il benessere economico di uno Stato è diventato strategico, e come tale deve essere difeso. Eric Denècè è un assertore dell’informazione come strumento di sviluppo economico e di supporto all’attività politica di governo. In questo scenario l’intelligence economica, pertanto, risulta essere una risorsa necessaria per l’implementazione delle dinamiche economiche statali. Negli accordi finanziari fra Russia e Cina, quanto vale questa teoria?

Moltissimo. E non solo guerre commerciali, ma anche monetarie e finanziarie giocate sul grande panorama della speculazione finanziaria internazionale. Non sappiamo chi ci sia effettivamente dietro quelle entità che la stampa chiama anonimamente “i mercati”. E poi, sia la Russia che la Cina, anche se spesso indirettamente, per esempio grazie alla criminalità organizzata, sono attivissime nello spionaggio informatico e in quella che in senso lato può chiamarsi “cyberwar”. E anche nella “infowar”, basti pensare alle clamorose fughe di notizie riservate accadute negli anni scorsi. Ma anche nei paesi occidentali, da decenni la manipolazione mediatica è diventata un’arma nelle mani dei vari “competitors” aziendali. La scuola francese di guerra economica distingue tra un patriottismo economico “difensivo” ed uno “offensivo”, anche se penso che il confine tra i due sia piuttosto labile. È ovvio che, se il panorama economico internazionale manifesta sempre più caratteristiche diciamo hobbesiane, l’unica via è il “para bellum”, cioè il patriottismo economico difensivo.


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