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I “SUFI” E LA POLITICA

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Articolo originale: http://www.ildiscrimine.com/i-sufi-politica/

Un articolo del giornalista egiziano Ahmed Fouad, tradotto e pubblicato sul sito della rivista Eurasia, ci offre l’occasione per svolgere alcune brevi considerazioni relative al ruolo che le organizzazioni iniziatiche islamiche svolgono – o dovrebbero svolgere – nell’attuale contesto dei Paesi nei quali sono operative.

Tali organizzazioni (in arabo turuq, pl. di tarîqa) si occupano tradizionalmente dello sviluppo spirituale di coloro che non si accontentano della semplice pratica formalistica della religione islamica, ma aspirano ad una realizzazione più profonda, il cui scopo finale – cui peraltro ben pochi possono ambire – è la gnosi (in arabo al-ma‘rifa), la conoscenza metafisica diretta, realizzativa (tahaqquq), non semplicemente mentale o libresca. A livello del popolo minuto simili organizzazioni hanno sempre mantenuto viva una pratica della religione in cui l’elemento primario è, se vogliamo riassumere sinteticamente, una prospettiva di “misericordia”, controbilanciando l’aspetto arido e rigoristico dei giuristi, i quali spesso hanno avuto l’eccessiva pretesa di rappresentare la tradizione islamica nella sua integralità.

Il giornalista di Al-Monitor riferisce le posizioni di certi rappresentanti delle turuq egiziane e rileva, o crede di individuare in alcuni casi, delle similarità fra queste e i famigerati movimenti “islamisti” che spesso riempiono, con la loro esagitata presenza, le cronache di questi ultimi tempi, come i Fratelli Musulmani (estromessi dal governo nell’estate del 2013 grazie all’intervento militare del generale al-Sîsî) e di altri gruppi estremisti genericamente indicati come Salafiti. La caratteristica fondamentale di tutti questi gruppi politici, che hanno assunto l’Islam non già come via di realizzazione spirituale bensì quale semplice ideologia politica, è l’estrema semplificazione dottrinale, in cui la religione viene ridotta ad una serie di norme di comportamento più o meno moralistico, sulla scorta di una“scuola” fondata circa due secoli e mezzo fa nella penisola arabica da Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhâb e nota come “Wahhabismo”. L’unica reale differenza fra i Fratelli Musulmani e i Salafiti è che, mentre questi ultimi predicano (ma di fatto non sempre praticano…) un rigido conservatorismo della lettera, così come definita dal loro “maestro”, i Fratelli Musulmani sono assai più spregiudicati e spesso disposti a travestire il loro reale pensiero dietro camaleontiche divise, che inducono gli osservatori a considerare quella organizzazione politica – a torto – come più moderata. Tuttavia ogni volta che si è presentata l’occasione di conquistare il potere (come nelle elezioni algerine del 1991 o in quelle egiziane del 2012), ovvero di porsi alla testa di qualche sedizione (come quella che ha portato al rovesciamento del presidente libico Mu‘ammar al-Qadhdhâfî o al tentativo di sovversione del governo siriano di Bashshâr al-Assad, come già negli anni ’80 del padre Hâfizh), non hanno certo dissimulato troppo la loro vera natura…

Ebbene le turuq con simili movimenti – che non possono dirsi veramente compatibili nemmeno con gli aspetti più esteriori ed exoterici dell’Islam – non hanno niente a che vedere, stante lo scopo stesso della loro costituzione.

Ciononostante può capitare di imbattersi in alcuni “shuyûkh” (pl. di shaykh, “maestro spirituale”) che mal rappresentando la propria funzione, si lascino trascinare nell’agone politico o, peggio, avallino forze decisamente contrarie agli interessi della società islamica.

Come riferisce il giornalista egiziano:

”l’ordine politico-religioso dei Senussi che ha governato in Libia prima della Rivoluzione [di al-Qadhdhâfî] era duramente criticato per i suoi rapporti con la Gran Bretagna, alla quale il regime [i.e. la monarchia senussita] ha permesso di stabilire basi militari sul territorio libico, in base al trattato del luglio 1953. Il regime ha permesso la stessa cosa anche agli USA in cambio di aiuti economici. Questa tra l’altro fu una delle ragioni che spiegano il progressivo affermarsi della Rivoluzione. I Sufi in Egitto non devono però essere giudicati alla luce dell’esperienza del regime dei Senussi in Libia”.
È evidente che un simile agitarsi di alcune turuq dimostra soltanto la loro decadenza e degenerazione, come ad esempio nel caso della libica Sanûsiyya, oppure – se si deve dare credito a certe voci – delle turuq irachene che si sarebbero alleate con i Salafiti.

Se gli “shuyûkh” di tali organizzazioni possedessero davvero la maestria che loro funzione richiede – non quindi una semplice e formalistica mashyakha (“nomina a maestro”) bensì una effettiva realizzazione – non avrebbero alcun bisogno di agitarsi per influenzare il corso degli eventi (anche politici…).

Possiamo ricordare come il secondo gran maestro della tarîqa shâdhiliyya, Sîdî Abû l-‘Abbâs al-Mursî (m. 1287), di fronte ad un tapino discepolo che lo spingeva a farsi avanti presso il Sultano per chiedere alcuni favori, ebbe a replicargli: «L’importante non è chi esercita il potere temporale. L’importante è chi detiene l’Autorità (spirituale) e conferisce la sovranità temporale: per quanto mi concerne, sono trentasei anni che detengo questa Autorità e conferisco tale sovranità» (riferito da Ibn‘Atâ’ Allâh al-Iskandarî nelle Latâ’if al-minan).

Sarebbe auspicabile che le turuq si occupassero unicamente dei loro uffici, fra i quali non è previsto affatto l’attivismo politico. Il che non vuol dire che qualche rappresentante dell’esoterismo, debitamente autorizzato (cioè investito per alcune sue eccezionali capacità e in maniera aliena da ogni “volontà di potenza”) non possa talvolta svolgere personalmente certe funzioni esteriori, come fu ad esempio il caso dell’Emiro ‘Abd al-Qâdir al-Jazâ’irî (grande sûfî algerino del XIX secolo che si oppose all’occupazione coloniale francese con un guerra di resistenza durata ben diciassette anni), o come è il caso di coloro che sono impegnati nel vero jihâd (“sforzo”), il quale naturalmente nulla ha a che vedere con la sovversione politica ma riguarda semmai, ad esempio, la difesa contro le aggressioni armate (o anche semplicemente “culturali”) che mettano a repentaglio la sicurezza della società islamica.

Il meglio che possano fare le turuq e gli shuyûkh nelle condizioni attuali per rimanere fedeli a se stessi sarebbe favorire (sottilmente…) l’emergere di forze che difendano i valori essenziali dei Princìpi tradizionali, anche (paradossalmente) mediante l’alleanza tacita con quanto all’apparenza sembri più lontano da essi, come certe espressioni politiche “moderne”… Ciò è tanto più vero nel momento in cui il formalismo religioso sclerotizzato sia caduto nelle mani sacrileghe dei nemici di ogni spirito tradizionale.

Tempo fa ci era capitato di rilevare una frase assai profonda dell’attuale grande imâm della moschea dell’Azhar, Ahmad al-Tayyib, che colpiva per la sua sintetica precisione. Rivolgendosi al sedicente shaykh al-Qaradâwî – il quale criticava l’intervento militare contro il malgoverno dei Fratelli Musulmani (dei quali al-Qaradâwî è fra l’altro l’eminenza grigia) – sembra che l’imâm, già Rettore dell’Università sunnita dell’Azhar, abbia ribattuto pressappoco in questi termini: “Il Saggio non è colui che predica il bene e inveisce contro il male, bensì colui che sa estrarre il bene dal male e il male dal bene …“. Un efficace aforisma atto a rappresentare la funzione degli shuyûkh nelle attuali difficili contingenze storiche.


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